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martedì 11 maggio 2010

La masseria: dalla storia del paesaggio agrario alla storia dell’uomo

Pubblichiamo qui integralmente l'articolo di Antonio Vincenzo Greco (www.perieghesis.it).

E’ molto difficile affrontare un discorso generale sulle masserie in così poco spazio ed avere, nel contempo, la pretesa di essere sufficientemente onnicomprensivo. Gli spunti e le occasioni di approfondimento offerti dal loro studio sono tali e tanti, infatti, che ogni affermazione deve essere intesa, piuttosto, come sollecitazione ad ulteriori ricerche. Pur tuttavia vi proveremo.

Ambivalenza del termine masseria

La masseria è molto più di quanto mostri all’osservatore, anche il più attento: è l’espressione multivoca di un paradigma, insieme economico, sociale ed ecologico, che ha accomunato tutta la società d’Antico Regime nel suo modo di concepire lo spazio, la ricchezza, i rapporti fra gli uomini e l’ecosistema (naturale ed addomesticato). Gli ultimi secoli hanno, invece, visto accelerare un lungo processo di deriva semantica che, nell’assimilare la funzione alla struttura, ha in realtà racchiuso il senso richiamato da tale modello funzionale (facere maxariam, come si intendeva) all’interno delle infrastrutture architettoniche necessarie al loro svolgimento.


E’ un apparente paradosso il fatto che proprio l’800 abbia assistito, nello stesso tempo, al massimo fiorire edilizio delle masserie ed all’emergere dei motivi di una crisi che, nel giro di alcuni decenni, avrebbe condotto al collasso della loro struttura organizzativa ed all’obsolescenza del loro primitivo significato. Trascorsa la loro Età dell’oro, coincidente con il pieno Settecento, accompagnato il mesto crepuscolo borbonico, fu infatti l’apertura postunitaria del Mezzogiorno ai mercati internazionali a privare, nello stravolgimento di consolidati rapporti fra città e campagna, fra galantuomini e cafoni, queste strutture della loro principale ragion d’essere: fungere da punto di raccordo e di equilibrio delle potenzialità produttive del territorio con la visione della società d’Antico Regime.

Il colpo di grazia definitivo è stato loro inferto dalla politica, in particolare da iniziative come la Riforma Fondiaria, e l’invenzione di una inedita vocazione industriale per il Mezzogiorno. Quest’ultima, in particolar modo, ha determinato, nello schiacciamento del più genuino ed originale modello mediterraneo del vivere il territorio, l’affermazione di istanze, ideologie e progettualità economiche innovative, che hanno periferizzato il sistema-masserie, condannandolo, di fatto, ad una morte da asfissia di funzioni. Ha prevalso così una impostazione ideologica revanchista, che individuava nelle masserie i segnacoli di quell’assetto socioeconomico che aveva costretto l’intero Mezzogiorno, pure meta appetita di voyages pittoresques da parte della intellighenzia di mezza Europa, ai margini non solo fisici dell’Europa, ed ha pertanto a lungo assistito, muta spettatrice se non complice, alla scomparsa di parte così importante di quel sistema a rete che, con maglie ora fitte, ora larghe, ora omogenea, ora frammista ad altre espressioni della economia rurale, aveva connotato per secoli il paesaggio agrario del Tarantino. Damnatio memoriae dei simulacri dell’ingiustizia e della sopraffazione!

Dopo l’ubriacatura (colpa, o piuttosto merito, il risveglio dal sogno-sonno del riscatto industrialista), si è nuovamente tornati a guardare verso queste emergenze territoriali. Le motivazioni appaiono varie, ma tutte forse riconducibili ad un comune substrato ideale, che è al tempo stesso un auspicio: che, cioè, proprio dalla riscoperta di storia e cultura proprie questa terra possa ricostruire un’identità avvilita se non annichilita ed avviarne la rinascita. E’ come se dal crogiolo del tempo perduto possano prendere forma progetti finalmente originali ed armonici, sentiti ed in grado di fornire risposte compatibili con le sfide di un mondo che odia ed annulla le differenze.

La masseria centro economico nel cuore del Mediterraneo

Col termine masseria intendiamo un’azienda agricola di grandezza medio-grande che è al tempo stesso centro di produzione ed organizzazione del lavoro agricolo inserito nel sistema della grande proprietà dell’Età Moderna, ma anche potente polarizzatrice dei destini (economici, sociali, urbanistici, infrastrutturali) del territorio prescelto per il suo insediamento. Essa rappresenta perciò un nodo gordiano della Conoscenza, crocevia multidisciplinare ove convergono la storia, l’architettura, l’urbanistica e molte altre discipline legate al contesto territoriale in cui essa ha agito.


La masseria ha costituito, in primo luogo, la principale base economica delle classi sociali egemoni (i grandi feudatari ed i nobili prima, i borghesi-galantuomini poi) che si contendevano (a seconda delle epoche e dei contesti politici) ora il prestigio ora il predominio della città o dei principali centri del contado. Ma in essa è scritta, altresì, anche la storia individuale di gran parte della popolazione minuta (il popolo) tarantina e dei casali che la circondavano.

Le masserie venivano ad occupare quei particolari snodi che mettevano in comunicazione il territorio circostante con Taranto ed in questo modo con l’intero bacino del mediterraneo. Ciò accadeva grazie al continuo flusso di merci prodotte, in gran parte, proprio all’interno delle masserie comprese nel suo vasto hinterland, che dall’alto jonio calabrese abbracciava l’alta Murgia barese, e che, attraverso carovane di muli ed asini, carri trainati da buoi o piccole imbarcazioni di cabotaggio giungeva nel terminale jonico, ove erano poi imbarcate verso i più importanti mercati italiani o centro-europei: il grano tutto all’ingorda metropoli Napoli, l’olio verso Genova, Marsiglia, l’Inghilterra e l’Olanda, In tale prospettiva la masseria ha costituito lo strumento privilegiato della mercantilizzazione dell’agricoltura mediterranea che sperimentava metodi o idee che avrebbero di lì a poco dato vita alla Rivoluzione industriale ed al Capitalismo.

La masseria e l’ambiente

Le masserie costituivano anche potenti strumenti di trasformazione dell’ecosistema. Al grano infatti, la più importante coltura praticata al loro interno, venivano sacrificate vaste plaghe conquistate ai boschi ed alla macchia mediterranea, aggravando i precari equilibri idrogeologici e contribuendo al mantenimento, se non la diffusione ulteriore, della piaga della malaria.

Anche le aree non coltivabili perché declivi o con roccia affiorante, tradizionalmente destinate al pascolo, andavano con il trascorrere del tempo, incontro ad un progressivo degrado ecologico per l’eccessiva pressione esercitata dal bestiame, mediato anche dal rituale periodico incendio della macchia. Ma anche questo incontro-scontro fra Natura e Cultura si è rivelato creativo: se, infatti, ha da un lato condotto alla formazione delle vaste pseudosteppe che rivestono tanta parte delle Murge tarantine, ha dall’altro dato vita ad un nuovo ed inedito habitat, talmente ricco di biodiversità che l’Unione Europea lo ha compreso (con la denominazione di TheroBrachypodietea) fra i Siti di Interesse Comunitario (SIC), quindi meritevoli di tutela (…)

La masseria resta, tuttavia, soprattutto una struttura architettonica, per cui non fa meraviglia il fatto che gran parte della letteratura attualmente disponibile sul tema si limiti soprattutto alla forma degli edifici, tradendo, lo ribadiamo, la ben più complessa nozione che filologicamente le compete.


Anche la forma ha una storia, ed un divenire suoi propri, parallele alla evoluzione delle funzioni. Le masserie sono nate per lo più come semplici appoggi per le greggi transumanti o come tuguri per uomini o magazzini per sementi ed arnesi, spesso ricavati in semplici grotte e recinti di pietra a secco, sono poi divenute le complesse masserie di campo e di pecore del pieno Settecento, per essere chiamate poi a celebrare e suggellare il successo sociale ed economico dell’emergente galantomia nelle monumentali residenze ottocentesche.

Questo comune filo rosso che sembra accomunare la storia di gran parte delle masserie ha assunto le più svariate forme architettoniche. La diversa disponibilità di materia prima in loco (dalle chiancarelle della Murgia al tufo del Salento ed agli imbrici del Tarantino litoraneo), i vincoli climatici e le culture edilizie espresse dalle maestranze impiegate, hanno interagito con moventi puramente funzionali (la necessità di sorreggere il peso della neve sulla Murgia e di raccogliere la sempre scarsa pioggia lungo la costa), onde ne è derivata quella straordinaria varietà formale riscontrabile sia nei singoli addendi edilizi (trulli, capanne, case, torri, coperture a pignon o a lamia) che nel loro assemblaggio. Su queste basi si regge l’ormai codificata distinzione in masserie a corte aperta, a corte chiusa, con corpi di fabbrica accentrati, con un corpo unico a sviluppo longitudinale o angolare o con elementi disaggregati, fino ai villaggi masseriali di Vallenza e di Levrano.

Impropria ci pare invece l’indicazione di masserie fortificate, in quanto pone, ad esempio, sullo stesso piano strutture (come le masserie a torre) nate con la precipua funzione di difendere uomini e raccolti in tempi (il Cinque-Seicento) e luoghi (le aree litoranee, in particolare) esposti alle scorrerie barbaresche, e le masserie a castello, edificate invece nel corso dell’Ottocento sull’onda del revival romantico del Medio Evo. L’esigenza della difesa era in realtà sempre sentita e se ne avverte ovunque la manifestazione formale, ad iniziare dalla stessa scelta del sito (si pensi alla collocazione della masseria dell’Amastuola, in agro di Crispiano).

La rete delle masserie si inserisce nel più ampio tema della storia insediativa del territorio. Mentre nei borghi incastellati dell’Italia centrale l’organizzazione del paesaggio agrario era fondamentalmente riconducibile a grandezze invarianti, quali la distanza dal centro abitato, dando così vita al classico modello dei cerchi concentrici, con colture via via più estensive man mano che ci si allontanava dal centro abitato; nel Tarantino, invece, come in gran parte della Puglia, esso risultava condizionato in maniera più determinante dalle caratteristiche più spinte (a tratti estreme) del clima, onde la necessità di piegarsi alle vocazioni intrinseche del suolo, inseguendole laddove si esprimessero, anche molto lontano dal centro abitato; questo leit-motiv ha certamente costituito un elemento di rigidità, stemperato tuttavia da un complesso melange, permeato dalla necessità di garantire l’autosufficienza alimentare, da un lato, e dalle variabili scelte di strategia economica perseguite dalla proprietà, dall’altra. Esempio della prima istanza fu l’ampia diffusione del vigneto all’interno del vasto comprensorio paludoso ad Ovest della città nel corso del Medio Evo, risultato della seconda è invece la geografia storica del sistema delle masserie.

In tale relazione stringente, le masserie apportarono contributi ambivalenti. Da un lato, rappresentano una prova della inerzia di fondo del paesaggio agrario, indicata a suo tempo da Emilio Sereni come una delle caratteristiche della storia del suolo italiano. Molte di esse rappresentano infatti la continuità, sorgendo su preesistenze ben individuabili (anche solo toponomastiche), in particolare le strutture medievali: si pensi ad esempio alle masserie di Pasano ed Agliano (Sava), sorte su casali omonimi, e quella di San Pietro sul Mar Piccolo, adiacente alla importante abbazia romanica.

Intorno ad alcune masserie si cercò di ricostruire (già nel corso del primo Cinquecento) la tela insediativa, con la creazione di nuovi casali, ospitando anche i tanti immigrati dall’altra sponda del Mare Jonio, Albania in primo luogo. L’esperimento talvolta riuscì, come accadde per Monteiasi per mano della signora del luogo, donna Geronima delli Monti; talaltra invece fallì, dopo un iniziale successo, come per Civitella da parte dei Carignano-Suffianò e successivamente dei Pappadà.

Ancora nell’Ottocento l’eco lontana di terre un tempo abitate stabilmente non si era spento, e, sulla scia di una congiuntura socio-economica e demografica favorevole, sempre intorno a masserie (Statte, Crispiano e [Villa] Castelli) presero corpo una serie di nuovi centri abitati.

Se però il legame con le preesistenze medievali è quasi immediato, grazie alla almeno parziale sopravvivenza di resti materiali, in taluni casi le radici affondano molto più in là nella storia del territorio, ora fra i resti di villae rusticae romane, ora di fattorie (oikoi) magnogreche, ora ancora, di persistenti tracce di insediamenti neolitici o dell’Età del Bronzo: si pensi ad esempio alle masserie San Pietro Marrese, sul Mar Piccolo, o la Masseria Casabianca a Lizzano, autentiche enciclopedie storiche en plein air!

Il potere catalizzante di certi luoghi va tuttavia ben oltre il tema strettamente abitativo-produttivo, coinvolgendo talvolta anche la sfera del sacro e, più in generale, l’immaginario religioso di un vastissimo pubblico. Si pensi ai santuari della Mutata a Grottaglie e di Pasano a Sava, ambedue adiacenti ad importanti masserie, espressioni frequentatissime di una diuturna devozione popolare.

Su un versante diametralmente opposto, il sistema delle masserie ha invece contribuito alla polarizzazione insediativa che è un tratto distintivo del paesaggio pugliese: fagocitando i microfondi contadini ha infatti dato origine a vasti latifondi, autentici deserti di grano, popolati da pecore e pastori, ed a grossi aggregati urbani, abitati dall’esercito bracciantile del popolo di formiche.

Pur con tale ambivalenza, l’embricatura della continuità risalta particolarmente, e con evidenze paesaggistiche ed architettoniche rilevanti, nelle masserie sorte all’interno di villaggi rupestri (valga come esempio la masseria Lama di Rose a Crispiano), ove si assiste ad una vera e propria emersione verticale delle strutture: dall’architettura in negativo delle grotte alla sfida verso il cielo lanciata dagli edifici in muratura.
 
 


 
Antropologia della masseria
 
Aliena del tutto dal fissare i rapporti Uomo-Terra secondo i ferrei criteri della moderna agronomia tecnologica ed industriale, l’agricoltura praticata all’interno delle masserie rimanda, piuttosto, a quel persistente ed incorrotto substrato culturale primigenio, tenacemente legato ad una visione pre-scientifica del mondo. Consuetudini senza tempo, pre-giudizi, atti e rituali ripetitivi, eterni come l’eterno ripetersi del ciclo stagionale, unico vero elemento determinante, con le sue alee, dei destini di vita o di morte.


La masseria è pertanto anche studio antropologico, dacché attorno ad essa viveva e lavorava, basava ricchezze, riponeva speranze di avanzamento sociale o, più semplicemente, il familiare sostentamento tutt’intera la società. E’ la masseria del folklore, o meglio delle strutture invisibili della storia, onde l’esigenza di ricostruirne la mentalità dominante, il delicato sistema di credenze che regolava non solo i rapporti fra uomini, ma anche quelle fra uomini ed un sempre incombente sovrannaturale. In esso si fronteggiavano, consumando sempre fragili equilibri, la religione ufficiale, rigidamente formalizzata in precetti e padrona incontrastata del tempo e delle stagioni, e l’indomabile substrato magico della cultura contadina, cuore profondo della civiltà mediterranea materializzantesi ora nelle forme addomesticate dei rituali e dei pellegrinaggi propiziatori, ora nelle aperte provocazioni rappresentate dalla festa contadina, dagli esorcismi delle masciare massafresi e dall’endemico fenomeno del tarantolismo.

Il più delle volte, tuttavia, sacro e profano convivevano in un sostanziale armistizio ideologico fra tempo della fede e tempo del lavoro, sublimato nella coincidenza del calendario agrario con quello religioso. Solo per fare alcuni esempi, l’annata agraria iniziava il giorno di Santa Maria (15 agosto), mentre la grassa dei maiali nei querceti terminava a san Nicola (6 dicembre).

Uno degli errori di più frequente riscontro nella letteratura relativa alle masserie è la nozione di esse come entità autosufficienti, addirittura autarchiche. Costituivano, al contrario, strutture aperte, attraversate da un flusso ininterrotto e bidirezionale di uomini (gli operai che nei momenti di picco stagionale –mietitura, vendemmia, raccolta olive- erano ospitati al suo interno), energia e materiali. Essendo innanzitutto un’azienda, la masseria presupponeva pertanto il mantenimento di una complessa contabilità, contenuta in un quaderno (quinterno) quotidianamente aggiornato dal conduttore (il massaro), in cui venivano annotate le entrate, consistenti nei raccolti dei campi e nei fitti dei vari comparti della struttura (gli animali, la masseria di pecore, il giardino, il mulino, il trappeto), ai quali occorreva sottrarre le scorte o capitanie (le sementi per l’anno nuovo, il panatico per gli operai, la biada per il bestiame), le spese per i salari, le riparazioni e gli acquisti di materiali, la sostituzione di bestiame, reperiti nei mercati nelle fiere. Il pensiero corre, naturalmente, al delicato capitolo del finanziamento dell’azienda, che apre uno squarcio sul, tuttora scottante, tema del credito agrario, fattore critico che ha vanificato i tanti tentativi di riforma.



Un’ipotesi di evoluzione diacronica

Ogni tentativo di individuazione e delineazione di uno schema coerente, se non unificante, della storia delle masserie s’infrange sulla complessità dei moventi etiologici che hanno condotto alla loro creazione e dei mutamenti occorsi nel prosieguo delle loro vicende, compresi i rapporti con l’alter ego dell’agricoltura mediterranea (il microfondo contadino, condotto a vite, giardino o orto). A rendere ulteriormente complesso il quadro è la constatazione che la masseria costituiva spesso solo una tessera di un’ancora più articolata scacchiera, costituita dai patrimoni familiari, se non da aziende e stati feudali, mediante i quali essa si apriva ai grandi scenari della politica nazionale ed internazionale. Volendo comunque cimentarci nella delineazione di una possibile diacronia, possiamo individuare una prima fase di formazione, coincidente con il basso Medio Evo, culminata con la definitiva affermazione cinquecentesca; a questa fece seguito la crisi del secolo XVII che pose tuttavia le premesse per la loro massima espressione, il Settecento. L’Ottocento coincide invece con la progressiva involuzione del sistema, culminata con il collasso di inizio Novecento.




Antonio Vincenzo Greco

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